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"La farfalla dalle ali spezzate" di Vittoria De Marco Veneziano
Presentazione a cura di
Arturo Messina
          Mi conviene dirlo subito: non è un romanzo rosa, che narra la storia di due innamorati che dopo avventure e disavventure fantastiche coronano il loro sogno d’amore; non è nemmeno un giallo, che narra di un assassinio il cui autore si scoprirà solo all’ultima pagina, dopo che ha tenuto in suspence il lettore; non è nemmeno un libro di avventure o di fantascienza, o un misto di cartoni animati e inanimati, quello di Vittoria De Marco.
          E’ un libro documento veramente scritto con inchiostro di cuore, che, lo ammetto pure, chi è abituato a leggere tutt’altro, chi trascorre la vita spensieratamente e legge per divagazione “libri ammazzatempo”, sarà tentato di sospenderne la lettura.
          Ma il... “sospensore”, ritengo che non sarà seguito se non da pochi, perché tutti abbiamo un cuore, tutti abbiamo sentimento, tutti ci commoviamo davanti a certi episodi, certe tragedie che avvengono davanti ai nostri occhi o ci vengono riferiti da chi realmente li ha vissuti, da chi ne è stato non soltanto testimone ma protagonista!
          Sì, è una narrazione lunga, una descrizione meticolosa che si sofferma ai minimi particolari, quasi a volerti far vivere ciò che la scrittrice ha vissuto, se non altro a volerti fare riflettere seriamente, non su un avvenimento che si è svolto nell’arco di qualche istante, ma per ben ventiquattro anni, senza un attimo di intervallo, senza un attimo di sollievo; ma non per suscitare semplicemente la tua commozione, per riuscire a strapparti la compassione!
          Tutt’altro! Vittoria non vuole compassione, pretende approvazione, non lacrime ma applausi! Lo scopo che si è prefisso Vittoria De Marco è invece quello di dirti:- Tu che ti godi la vita spensieratamente, pensa che attorno a te ci son tanti che soffrono le pene dell’inferno per tanti motivi, per indigenza, per disoccupazione, per malattia, per mille preoccupazioni eppure non si lamentano, anzi sorridono, perché sanno le “le difficoltà non rendono infelici”! Pensaci! E anche voi che soffrite, pensate che c’è sempre chi soffre più di voi e tuttavia non si arrende, non si abbandona, non si dispera e ha il coraggio di sorridere, di portare la sua croce, di salire con piè fermo al suo Calvario, perché la sua grande fede gli sussurra le evangeliche beatitudini, perché la sua grande fede gli fa credere fermamente alla sua resurrezione, alla sua vittoria finale .
          Forse non a caso, all’atto del battesimo, le fu messo il nome di Vittoria: lei dichiara di non essersi mai sentita una sconfitta, ma sempre vittoriosa perché lei, malgrado il grave peso della sua croce, ha sempre sorriso considerando che , come lei stessa riferisce, “qualcuno ha detto che il sorriso è una medicina infallibile, anzi il toccasana contro ogni dolore del corpo e dello spirito”.
          La ricetta che io dico dobbiamo tenere presente sempre, in ogni occasione, è quella della cinque: “Soldi, Sistemazione, Salute, Serenità, Sorriso”; ma anche se dovessero venire a mancare, ad una ad una, le prime quattro, l’ultima, anche se ci piange il cuore, non deve mai mancare e dobbiamo riuscire a sorridere, che è molto più del rassegnarci!
          Prima di Vittoria Veneziano De Marco e al suo consorte, è la storia della filosofia contemporanea che ci presenta un caso di grande eroismo nell’accettare la sofferenza come dono divino di cui dobbiamo esser lieti, considerando che andiamo “per crucem ad lucem”.
          E’ il caso di Emmanuel Mounier, il padre del Personalismo, la cui prima figlia; Françoise, dopo una vaccinazione antivaiolosa si ammalò, cadde in uno stato di incoscienza e subito apparve chiaro che la piccola, incurabile, era ormai “condannata a vivere in una misteriosa notte dello spirito” Ebbene, quando il teorico della rivoluzione personalistica e comunitaria, contro sia al capitalismo che al marxismo, seppe la tragica notizia, non si abbatté, non maledisse, ma scrisse alla moglie delle frasi che ciascuno che soffre per qualsiasi motivo, dovrebbe tener presenti:
          “Che senso avrebbe avuto ciò se la nostra bimba non fosse un batuffolo di carne sprofondata non si sa dove, un frammento di esistenza senza senso e non già questa bianca, piccola ostia che tutti ci supera, un’immensità di mistero e d’amore che ci abbaglierebbe se si mostrasse ai nostri occhi, se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che, ogni volta, quando il nostro cuore comincia ad abituarsi, ad adattarsi al colpo precedente, rappresenta una nuova domanda d’amore?
          E poi aggiunse: “Dal mattino alla sera non pensiamo a questa sofferenza come a qualcosa che ci viene tolto, ma come a qualcosa che doniamo, per non essere da meno di questo piccolo Cristo che è fra noi, per non lasciarlo solo, lui che deve attrarci, per non lasciarlo solo a soffrire con Cristo”.
          Vittoria De Marco Veneziano con il racconto della sua vittoria sulla tentazione di abbattersi di fronte ad una prova così grande che le è stata imposta, vuole insegnarci a portare ciascuno di noi la propria croce, a superare ciascuno di noi la prova che ci viene imposta per dimostrare che non siamo credenti soltanto con le parole, ma con i fatti, adottando la “strategia del sorriso”
          Il suo è un racconto molto particolareggiato di come lei abbia saputo affrontare una situazione così drammatica, di come lei abbia saputo lottare senza mai arrendersi, di come lei abbia cercato ogni mezzo per superare il gravissimo problema di salute, la tremenda condizione di salute della propria creatura fin da quando lei è nata fino a quando il Signore ha voluto toglierla, dopo tanti e così gravi sacrifici da lei compiuti per cercare di trovare chi potesse curare la sua Maria, il suo angelo attraverso terapie riabilitative estenuanti.
          “Non sapevo niente sull’handicap, sulla cerebrolesione, sulla disabilità - scrive –Sapevo solo che avevo un nemico da combattere e che per sconfiggerlo bisognava conoscerlo”.
          E avendolo lei conosciuto e combattuto, sente il dovere di far conoscere a chi si trova in situazioni analoghe alla sua, a chi soffre, anche se non come lei, la sua esperienza nelle sue varie fasi, sicura che sarà di giovamento sia per cercare come lei di far di tutto per risolvere il grave problema, sia per avere la forza, come lei, di affrontare ogni evenienza con la strategia del sorriso.
          Il suo è un romanzo intimistico non fine a se stesso, non evocativo per motivo consolatorio personale, ma esemplificativo collettivo, esaltatorio della sofferenza potrei dire anche esortativo alla sofferenza; ma è anche ricco di episodi e descrizioni che rendono varia e attraente la narrazione. Vi troviamo persino episodi di cronaca di qualche anno addietro, come il lancio dei due Scud di Gheddafi nel 1986 o l’incidente nella centrale atomica di Chernobyl,
          Così lei introduce nel contesto scene e personaggi vari, caratteristici, interessanti, fin dall’inizio. Originale anche la formula discorsi della narrazione, non in prima né in terza persona, come generalmente usa fare un narratore, ma la seconda persona, come in uno stile epistolare: è, in effetti, una serie di lettere che la scrittrice indirizza a Maria, la figliola che oramai, da semplice farfalla dalle ali spezzate, si è librata in volo verso l’infinito, per i sempiterni giardini in cui i fiori non appassiranno mai.
          Ogni lettera costituisce un capitolo, che fa precedere da una frase significativa di famosi personaggi, cui, tuttavia non pone una data, appunto perché immagina che sia un’unica lunga lettera, un unico lungo discorso rivolto al proprio angelo, che tiene fin dalle prime battute a ringraziare per averle offerto l’occasione di meritare il premio che Cristo Salvatore , nel discorso delle beatitudini, ha promesso a coloro che soffrono su questa terra, perché essi godranno in paradiso.
          Così infatti dice:” Devo iniziare subito col dirti che la mia vita insieme a te è stata uno splendido accadimento”
          La narrazione ritiene di iniziarla parlando prima della sua infanzia, nel capitolo intitolato “La ringhierina”, considerando che, come Ardengo Soffici soleva dire, “Forse l’infanzia di ogni uomo è qualcosa come un paradigma e un simbolo di quello che sarà poi nel corso della vita”.
          In tal modo Vittoria De Marco conferisce alla sua narrazione due fattori di sostegno molto importanti: quello di dare una lezione di vita, soprattutto a chi ha problemi che si avvicinano al suo, offrendogli, da un canto, delle conoscenze preziose sia sulla malattia, sia sulla cura, dall’altro degli spunti di sollievo e direi pure di lettura diversificata, che non è fine a se stessa né di diversivo, anche se gran parte di ciò che espone può considerarsi anche in chiave narrativa, come qualsiasi opera letteraria, per le capacità analitiche e descrittive sia dell’ambiente e del paesaggio, sia degli stati d’animo che, come hanno caratterizzato la sua esperienza, la sua esistenza, attraversiamo un po’ tutti.
          Pregevoli, in modo particolare, certe sue riflessioni che sono degli autentici, originali aforismi, come quello che si riscontra nel capitolo “La lotta continua”: “Penso che di fronte alla sofferenza altrui ognuno di noi mostra la sua fragilità”, cui ne segue un altro ancor più sintomatico: “Per assurdo credo che la menomazione non è del non abile, ma di chi non è capace di superare le proprie barriere mentali, trincerandosi dietro l’indifferenza o il rifiuto di qualunque tipo di incontro. Si adottano certi comportamenti come difesa nei confronti della diversità che fa paura”
          Non posso, infatti, non sottolineare che l’impostazione, la struttura, lo sviluppo, lo stile della scrittrice, sono effettivamente di un livello artistico di notevole valenza: opera, quindi, degna di essere presa nella dovuta considerazione sia come contenuto che come forma.
          E’, ad esempio, un autentico racconto quello di “Santa Valburga” che ha momenti anche divertenti, come la scena che racconta come la scrittrice, rimasta incastrata tra le sbarre del balcone che separava l’appartamento dei suoi da quello dei vicini, cominciò a urlare, ma non tanto perché non poteva più liberarsi, quanto perché il suo orsacchiotto, Niki, gli era sfuggito dalle mani ed era andato a finire “prima sulla testa del ricottaio, fermo con la sua bicicletta sotto il balcone, poi sulle cavagne di ricotta che l’uomo teneva dietro di sé in un canestro fissato alla bicicletta”.


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